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Cultura

ILTRATTATO DI METAPOLITICA DI CARLO GAMBESCIA

ILTRATTATO DI METAPOLITICA DI CARLO GAMBESCIA

di Aldo La Fata

Una soddisfacente e non disonorevole fondazione scientifica ed epistemica della metapolitica esigeva almeno due cose: un riesame approfondito delle origini della parola, della vicenda storica e dei suoi maggiori interpreti, e la costruzione di una teoresi nuova, rigorosa e non contraddittoria, insieme enunciativa ed operativa. Un compito assai difficile che solo uno scienziato sociale di lungo corso come Carlo Gambescia poteva assolvere con il necessario rigore critico e metodologico. Il risultato è un ponderoso studio in due volumi dal titolo Trattato di metapolitica (Edizioni Il Foglio).

Com’è noto, un trattato è un'opera che espone in un contesto unitario sufficientemente voluminoso, princìpi e concetti basilari di una materia del sapere. In questo caso si trattava di accreditare come scientifica una disciplina non riconosciuta e per lo più diffamata, cercando altresì di affrancarla dallo stigma ideologico che di solito accompagna il suo nome.

Diciamo subito che è da oltre un decennio che Gambescia prova a nobilitare scientificamente e culturalmente la metapolitica. Il suo primo studio sull’argomento risale a quindici anni fa e porta il titolo di Metapolitica, l’altro sguardo sul potere (Ed. Il Foglio, Piombino 2009). In esso, i temi principali, ora rivisitati e presentati nel Trattato con maggiore accuratezza, vi erano già quasi tutti annunciati e la “cassetta degli attrezzi”, come ama definirla Gambescia, era già predisposta e pronta all’uso. Per averne contezza basta consultare la sua pagina web[1] che esiste dal 2005 o procurarsi il volume Metapolitica del coronavirus (Ed. Il Foglio, 2021), che raccoglie due anni di riflessioni metapolitiche sul tema specifico della pandemia. Dall’insieme ricchissimo di questo materiale, che direi unico nel panorama europeo, emerge come dato rilevante che la metapolitica di Gambescia è una proposta culturale alternativa sia al mainstream (la cultura percepita ed etichettata come dominante) che alla cosiddetta contro-cultura anticonformista e antisistema. Quest’ultima in particolare, tanto da destra come da sinistra, ha sempre preteso di essere la sola voce fuori dal coro, quando in realtà il più delle volte non è che un’altra faccia, magari minoritaria e culturalmente svantaggiata, del conformismo. Oggigiorno poi, vedere rappresentato l’anticonformismo non più sulle fanzine, che, se non altro, avevano dalla loro una certa estetica della rivolta, ma sui social media, dà l’impressione di trovarsi di fronte a una realtà non veramente antagonistica, ma del tutto addomesticata, e che sembra lavorare in sinergia proprio con quel Sistema che tutti i giorni dice a parole di voler contrastare e combattere. 

La metapolitica di Gambescia rappresenta in questo senso un eccellente antidoto sia contro questo genere di antagonismo debole e controproducente, sia contro il monopolio del pensiero unico. Ragione per la quale risulta invisa ad entrambi gli schieramenti che per tenere in piedi i loro rispettivi castelli di carte devono per forza o ignorarla o fingere di ignorarla. D’altronde ormai dovrebbe essere chiaro a tutti il “gioco delle parti” dietro il quale si celano vecchie strategie politiche e nuovi interessi privati che Gambescia nelle sue riflessioni metapolitiche quotidiane, nel suo blog, riesce quasi sempre a smascherare.

Ma allora cerchiamo di chiarire meglio in cosa consista esattamente questa metapolitica.

A tutta prima diciamo che si tratta di una euristica della politica, delle scienze sociali e delle scienze storiche e insieme di un’analitica delle costanti e regolarità o, detta in altri termini, di una strategia cognitiva per individuare senza sforzo la permanenza di certi processi e di certe dinamiche sociali.

Com’è noto, nella politica, ma anche nella società, tutto è in costante divenire, ma ci sono alcuni elementi che si ripetono sempre uguali. Si tratta allora di isolare queste persistenze, non in astratto, ma a partire dalla realtà fattuale e possibilmente senza lasciarsi condizionare da miti politici, ideologie o categorie concettuali subculturali. È questo un modo di procedere disciplinato che, ci avverte Gambescia, si ispira “ai prudenti e umili criteri della ricerca scientifica” (Trattato, p. 66, I vol.). Il problema scientifico della “demarcazione” è talmente sentito dal Nostro da portarlo a definire questa sua metapolitica una “scienza dei limiti”, quale consapevolezza dei limiti umani (vol. I., p. 173).  È un punto dirimente sul quale torneremo alla fine di questa recensione, non senza aver prima illustrato in brevissima sintesi, il contenuto dei due volumi del Trattato. Dico in brevissima sintesi perché un’analisi più accurata richiederebbe uno spazio che qui non ci è concesso.

Il primo volume che ha come sottotitolo “storia, concetti e metodo” e che si estende per oltre duecento pagine, ripercorre a ritroso la storia della parola metapolitica descrivendone con rigore storico i contesti linguistici, ideologici, politici e culturali, e dilungandosi poi sugli autori principali che ne fecero uso, anzi consacrando a ciascuno di loro un nutrito paragrafo: dal monaco cistercense Juan Caramuel Lobkowitz (1606-1682), che fu il primo che si sappia ad utilizzare la parola metapolitica, al politologo e storico statunitense James Gregor (1929-2019); dal filosofo tedesco Manfred Riedel (1936-2009), al tradizionalista esoterico Silvano Panunzio (1918-2010); dal filosofo e politologo argentino Alberto Buela (1946), al filosofo francese Alain Badiou (1937).

 Un accurato e obiettivo excursus storico che vale come indispensabile discorso preliminare per tutto ciò che segue e soprattutto per andare oltre ciò che è stato e per traghettare la metapolitica dalla stratosfera dello strutturalismo utopistico reazionario e/o rivoluzionario, alla terra ferma e salda di una “scienza normale” (Kuhn), cioè di un sapere replicativo, codificato e, soprattutto, popperianamente falsificabile. Un tentativo insomma, quello di Gambescia, di normalizzazione linguistica e semantica della parola e di mitigazione ideologica per favorirne l’uso “scientifico”. Operazione in verità non facile e dagli esiti incerti, destinata, almeno a breve scadenza, a cadere nel vuoto, soprattutto a causa dell’incommensurabile ignoranza e pigrizia mentale degli ambienti accademici e universitari a cui per lo più è rivolta.

Il secondo volume ha come sottotitolo “laboratorio storico” e in esso Gambescia cerca di dimostrare la teoria attraverso esempi tratti dalla storia conosciuta. Si parla della storia degli ultimi 5000 anni (nell’insieme degli eoni cosmici, un semplice battito di ciglia, ma per l’uomo che siamo, un tempo sufficientemente lungo), che in fondo è la sola che conosciamo veramente e sulla quale si possono esercitare le nostre osservazioni. Ma per fare questo lavoro di estrapolazione è necessaria una “visione d’insieme” come la ebbero ad esempio studiosi del calibro di Pareto, Spengler, Toynbee e pochi altri e alle cui opere si può attingere, pur se con il necessario senso critico e possibilmente senza lasciarsi prendere troppo la mano. Anche qui Gambescia sa il fatto suo, come ha dimostrato in un suo interessantissimo saggio precedente dal titolo Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza (Ed. Il Foglio, Piombino 2016), la cui lettura caldeggiamo fortemente.

La storia per Gambescia è come un lungo discorso nel quale si possono individuare alcune parti invariabili. Egli ne identifica sei, a ciascuna delle quali è dedicato un intero capitolo. Sempre per ragioni di sintesi, qui devo limitarmi a nominarle, lasciando al lettore il gusto della scoperta e della verifica. Diciamo solo che si tratta di constatazioni non smentibili, avvalorate da fatti puntualmente identificati e da ragionamenti inferenziali. Eccole: 1. persistenza del potere (conquista, conservazione e perdita); 2. persistenza della dinamica della stratificazione politica (cioè, dal punto di vista del fenomeno organizzativo del potere); 3. persistenza della dinamica tra inclusività ed esclusività politica (la schiavitù, i nazionalismi, ecc.); 4. persistenza della dinamica tra forze politicamente centrifughe e centripete (dinamiche tra movimento e istituzione); 5. persistenza della dinamica politica tra amico e nemico; 6. persistenza della razionalizzazione (o giustificazione ideologica) dei fenomeni politici a livello comportamentale. Sei tipologie concettuali di regolarità definite da Gambescia “di primo grado” alle quali vanno aggiunte ulteriori cinque diramazioni di “secondo grado” che quindi portano il numero delle regolarità ad undici. È questa la griglia tipologico-concettuale della metapolitica teorizzata dallo studioso romano, che troviamo sintetizzata in un utile quadro sinottico al termine dei due volumi.

Come anticipato torniamo ora sulla questione della metapolitica come “scienza dei limiti”, definizione che sembra contraddire quell’oltre che pure è contenuto nel suo nome. E qui mi sovviene quanto scriveva proprio quel Montale così tanto giustamente apprezzato da Gambescia e ai cui versi egli è ricorso per sigillare i tre capitoli del I volume del suo Trattato. Nella famosa raccolta Ossi di seppia (1925) il poeta scriveva: “Sensi non ho, né senso, non ho limite” (il tondo è mio). Certamente, ne convengo, non può essere l’illimitato ad avere un senso, giacché per definizione il senso definisce già di per sé un limite, un limite invalicabile oltre il quale non si riesce più a definire o a dare un significato alle cose. Ma c’è da chiedersi se con questa pur legittima, saggia e di buon senso delimitazione del discorso, si riesca poi a pervenire ad effettive acquisizioni di maggior valore. Un punto questo fondamentale per chi come il sottoscritto ha sposato da oltre un ventennio la metapolitica del metafisico Silvano Panunzio. Mi spiego meglio: se si riduce la metapolitica a una “scienza del limiti”, o se si vuole del limite, non si rischia di ritornare a una più terrena sociologia della politica a cui semplicemente si è cambiato nome? Quale sarebbe il valore aggiunto della metapolitica se essa accettasse di essere presidiata, perimetrata, limitata e insomma tenuta a freno dal dicibile della politica? Non dovrebbe essere, coerentemente con il suo nome, l’ulteriorità il suo fondamento più saldo, la sua stessa ragion d’essere? Per capire quale sia questo fondamento, può forse aiutare un esempio tratto dal mondo della natura osservabile. Prendiamo il sole come corpo celeste. La metapolitica di Gambescia a questo proposito ci potrebbe dire che dal punto di vista dell’uomo che lo osserva (il limite antropologico imposto), esso sorge (regolarità di primo grado) ogni mattina (regolarità di secondo grado) e tramonta (regolarità di primo grado) ogni sera (regolarità di secondo grado). Ecco che qui la metapolitica di Gambescia può coincidere con il senso comune e avere a che fare con le evidenze se non fosse per lo schema cognitivo a cui normalmente non si pensa. Siamo  anche  disposti  ad ammettere, per usare  il vocabolario di Gambescia, che la metapolitica  sia una sorta di scienza N+1, nel senso  di scienza addizionale che studia le caratteristiche generali comuni a  tutte le N classi di fenomeni (politici, storici, sociologici),  introducendo in questo modo  una sorta di   surplus cognitivo + 1,  al punto di creare   una scienza   che non esisteva prima: una scienza, ripetiamo,  capace di sussumere, rielaborandole  in chiavi di a priori, ma operativi, concreti non   astratti  (come si prova  nel  II volume del Trattato),   le  caratteristiche o forme comuni  di altre scienze sociali già  esistenti, come la scienza politica e la scienza sociologica  (vol. I, pp. 130-133).  Però, ed ecco un altro punto interessante, lo scienziato metapolitico, ci dice comunque che esistono delle costanti destinate a ripetersi sempre uguali a se stesse e che queste costanti è assolutamente improbabile che cambino con il tempo. Ovviamente andando più a fondo lo scienziato metapolitico potrebbe riuscire, con una più accurata osservazione, a individuare altre costanti e regolarità: l’ora di levata e di tramonto del sole, la dipendenza di questa ora con il meridiano del luogo, il fatto che in alcuni luoghi questa ora non è la stessa di altre, ecc. ecc. Ma cosa resterebbe fuori da tutte queste rilevazioni e constatazioni di elementi invariabili? Probabilmente alcuni fatti eccezionali che potrebbero sfuggire alle rilevazioni ottiche, strumentali e previsionali. Ad esempio, ma faccio per dire, il famoso “raggio verde” che nell’immediato sorgere e tramontare del sole qualche fortunato riesca a cogliere, o quelle cicliche macchie solari che, ci dicono gli scienziati, possono influenzare la psicologia individuale e persino quella di massa, o, ancora, una tempesta geomagnetica particolarmente violenta in grado di mettere in ginocchio la nostra civiltà delle macchine, ecc. ecc. 

Insomma, una scienza, metodologicamente parlando, che si ponesse dei limiti ben precisi non potrebbe mai dirci nulla su tutte queste sfuggenti regolarità. Che ne è, ad esempio, nella metapolitica di Gambescia, dell’evento del “cigno nero” di Nicolas Taleb? Per quanto imprevedibile, non è anch’esso una regolarità? E perché escludere questa regolarità un po’ speciale dalla griglia concettuale delle regolarità? A dire il vero, per onestà intellettuale, va precisato che la metapolitica di Gambescia non esclude nulla, soprattutto per quanto riguarda il futuro. La dinamica metapolitica delle regolarità conferma solo ciò che è avvenuto fino ad oggi, ma non nega aprioristicamente la possibilità che in futuro le cose possano cambiare o che intervengano fattori imponderabili di altra natura. Pertanto, pur essendo vero che essa si pone dei limiti ben precisi, questi limiti non risultano vincolanti, non pregiudicano l’innesto di altri fattori. Scienza del limite sì, ma soprattutto perché cognitivamente umile; perché respinge tutte le “utopie”, queste sì davvero impossibili; perché crede nell’ironia della sorte, ovvero nella natura ironica degli “effetti compositivi” (su questi ultimi invitiamo il lettore a leggere con attenzione l’ultimo fondamentale capitolo del Trattato – II volume, pp. 187-213 - che ne porta il titolo, nonché  la messa appunto teorica sempre sullo stesso argomento  nel  I volume, pp. 133-137 ), frutto di azioni individuali e di interazioni tra azioni individuali e collettive; perché crede nell’eterogenesi dei fini e negli “effetti collaterali” che possono derivare da azioni non calcolate o non appropriate, perché, insomma, crede  nell'imprevedibilità delle azioni sociali in termini di effetti di ricaduta, positivi o negativi, comunque contrari alle intenzioni umane di partenza. Se vogliamo è questa la dimensione “trascendente” della metapolitica di Gambescia, il suo “oltre”.

Però, sempre per ragioni di onestà intellettuale, non si può a fare a meno di fronte a questo ineccepibile e sempre aperto punto di vista, di mettere comunque  in luce le differenze tra una prospettiva che pone al centro del suo ragionamento l’illimitato e il trascendete (la metapolitica di Panunzio, che è anche la mia) e una prospettiva che invece lascia la trascendenza sullo sfondo (la metapolitica di Gambescia), ma senza negarla o rifiutarne aprioristicamente la possibilità. Nella considerazione che di fronte a cambiamenti epocali fino a qualche tempo fa inimmaginabili e che suscitano nei più un senso di smarrimento, i due punti di vista, a mio avviso, dovrebbero coesistere e collaborare. Perché non ci si può accontentare di racchiudere la totalità nell’orizzonte della storia, ma non si può nemmeno cancellare la storia pensando che essa non esista o che non sia poi così importante.

[1] http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com.

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